GUARDIE GIURATE E ISTITUTI DI VIGILANZA

Guardie giurate e istituti di vigilanza

di Ciro Pacilio

Sommario: 1. Introduzione – 2. Origini storiche – 3. Disciplina – 4. Poteri di intervento diretto – 5. Il requisito della cittadinanza italiana – 6. Regime di responsabilità – 7. Qualifica di pubblici ufficiali – 8. Porto d’armi – 9. Controllo del datore di lavoro

1. Introduzione

Un esame avente ad oggetto gli istituti di vigilanza privata nonché la condizione personale e lavorativa delle guardie giurate che vi prestano servizio, appare tema di grande attualità considerato il rapido svilupparsi di tali enti e le notevoli problematiche che vi ineriscono, intrecciando i temi della libertà individuale con quelli della tutela ed autotutela della persona. La materia appare di ancora più complessa trattazione ove ci si soffermi sulle carenze legislative che la contraddistinguono e sulla contradditorietà della giurisprudenza che, con voce non sempre unanime, ha reinterpretato e rielaborato elaborato i laconici e non sempre attuali testi normativi.

La nascita ed il prolificare dei moderni istituti di vigilanza affondano le proprie radici in tempi storicamente e socialmente lontani. Uguali sono, pur tuttavia, i fini che ad oggi ne caratterizzano l’operato. Tali fini rispondono, in primo luogo, all’atavica esigenza dell’uomo di provvedere alla propria difesa personale e patrimoniale, anche delegando tale attività a terzi; ed, in secondo luogo, rispondono alla pressante necessità di supplire all’attività dello Stato, le cui forze si rivelano spesso incapaci di contrastare sul campo i fenomeni legati, latu sensu, alla criminalità. Si tratta – è d’obbligo sottolinearlo – di una incapacità non solo funzionale, ma spesso quasi inevitabilmente fisiologica in uno Stato che fa del rispetto delle libertà individuali un suo elemento fondante e che, pertanto, deve, spesso suo malgrado, accettare di cedere il passo alle necessità di controllo del territorio . Tuttavia, è proprio in quest’ottica che si può riconoscere, agli istituti che operano nel settore, un fine ed una utilità sociale, nonché – come affermato dalla Corte Costituzionale con Sent. del 10 giugno 1970, n. 89 – una applicazione di quel principio generale della “collaborazione civica”, il cui fondamento costituzionale è rinvenibile nell’osservanza dei “doveri di solidarietà sociale” di cui all’art. 2, Cost. Coerentemente con i fini di utilità pubblica che tali istituti sono destinati a perseguire, la loro attività deve essere comunque pur sempre soggetta a controlli atti ad assicurarne il corretto esercizio di poteri e funzioni che altrimenti rischierebbero di far prevalere gli interessi privati di singoli su quelli della collettività: questo è il senso della sentenza della Corte Costituzionale del 6 luglio 1965, n. 611, con cui si è dichiarato costituzionalmente legittimo l’art. 134 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza – Regio Decreto 18 giugno 1931, n. 773 – laddove esso, appunto, dispone che il diritto di esercitare in via professionale l’attività di investigazione o di vigilanza è soggetto a limitazioni tese a garantire il perseguimento di finalità pubbliche.

A tutto quanto già detto non può, purtroppo, non aggiungersi l’amara constatazione che, anche in un settore in fermento come quello della sicurezza, il legislatore sta fornendo risposte insufficienti, non in grado di valorizzare un mercato che ha conosciuto negli ultimi decenni, e sempre in rapida ascesa, un enorme sviluppo sia dal lato della domanda – dovuto dal dilagare dei rischi cui è esposto il patrimonio in qualsiasi sua forma – sia dal lato dell’offerta – che, beneficiando delle possibilità offerte dal progresso tecnologico, ha consentito agli istituti di proporre servizi variegati e collaterali rispetto alla semplice vigilanza, maggiormente in grado di adattarsi alle singole esigenze (in tali contesti possono, a titolo esemplificativo, citarsi i sistemi di allarme, il trasporto valori, le difese passive).

Occorre, infine, operare fin da subito una distinzione, che delimiti il tema della presente trattazione all’attività di vigilanza, escludendo quella di investigazione. Accomunare tali attività appare assolutamente inadeguato, in ragione dell’evidente diverso fondamento giuridico che ad esse è attribuibile. L’attività di investigazione è, infatti, del tutto estranea al diritto di difesa dei privati e neanche si può ritenere supplisca ad alcuna attività altrimenti demandabile alla funzione pubblica. Né, tanto meno, essa può trovare rispondenza nel diritto di cronaca, rispetto a cui è evidentemente cosa diversa. L’attività di investigazione, se lecitamente svolta, può, pertanto, semplicemente consistere nell’osservazione e raccolta di dati che già di diritto siano nella disponibilità di tutti. In altri termini, l’attività di investigazione privata non può per alcun verso considerarsi suscettibile di integrare quella svolta dai corpi di polizia, poiché, in quanto tale, solo a quest’ultima può istituzionalmente riconoscersi la facoltà di invadere sfere di conoscenza che le sono riservate. A tale ratio rispondono gli artt. 617, 617 bis, 617 ter c.p. (come modificati dagli artt. 2 e 3 della Legge del 8 aprile 1974, n. 98 “Tutela della riservatezza e della libertà e segretezza delle comunicazioni”2) che puniscono con maggiore severità abusi contro la riservatezza, la libertà e la segretezza delle comunicazioni se commessi da chi esercita la professione di investigatore privato.

2. Origini storiche

Risalendo fin ai primordi del nostro sistema legislativo si possono facilmente rinvenire chiare testimonianze relative alle prime forme allora sviluppatesi di istituti addetti alla vigilanza per conto di terzi. Già prima dell’unificazione amministrativa del 1965 gli Stati preunitari riconoscevano, nei loro pur eterogenei ordinamenti, il diritto alla difesa della proprietà terriera, sia ricorrendo personalmente a forme di autodifesa, sia impiegando “guardie de’ particolari”.

A seguito dell’unificazione amministrativa del 1865, ed in particolare con la Legge di Pubblica Sicurezza del 20 marzo 1865, n. 2248, all. B, art. 7, si offriva il primo espresso riconoscimento formale al diritto dei privati di affidare a guardie particolari la custodia e la vigilanza delle proprie terre.

Ciò che invece tardò ad essere riconosciuto e fu oggetto di contrasti giurisprudenziali, fu il riconoscimento delle organizzazioni volte ad offrire, in modo professionale e con intenti commerciali, tale servizio ricevendo commissioni da privati e assoldando guardie mercenarie che vi si impiegassero.

Il fenomeno non era visto con favore dalla dottrina: provvedere alla propria difesa, anche tramite l’impiego diretto di guardie private, appariva cosa ben diversa dal consentire che si creassero enti privati cui fosse istituzionalmente demandato il compito di provvedere alla sicurezza dei cittadini, poiché ciò richiedeva inevitabilmente una sovrapposizione della funzione pubblica con quella privata e che si riconoscesse a quest’ultima un’ autorità che, in quanto tale, si riteneva non potesse essere che di esclusiva pertinenza dello Stato.

Tuttavia, sulle questioni di principio prevalsero le sempre incalzanti esigenze di sicurezza favorite dal dilagare dei fenomeni di criminalità e da un’ economia in larghissima parte legata alla proprietà terriera, vulnerabile nella sua fisicità ed esposta a quei rischi che solo l’impiego di guardie private avrebbe potuto scongiurare.

Sia chiaro, la rilevanza sociale della tutela portava anche a forme “organizzative” di difesa di natura prettamente privatistica e fuori dal rispetto di regole giuridiche.

Fu con il R.D. 4 giugno 1914, n. 563 che gli istituti di vigilanza trovarono per la prima volta formale riconoscimento, ripianando quella situazione di incertezza che aveva caratterizzato gli anni precedenti. La materia trasse ulteriore arricchimento e completezza dalla approvazione del t.u.l.p.s. del 6 novembre 1926, che, alla attività di vigilanza, affiancò quella di investigazione e ricerca delle informazioni, la quale mai prima di allora era stata oggetto di specifica disciplina. In particolare, anche agli istituti di investigazione fu estesa la disciplina relativa all’autorizzazione prefettizia e fu introdotta la figura del “direttore”.

Frattanto, il t.u.l.p.s. del 1926 fu sostituito, anche per l’emanazione dei nuovi codici penali, da quello entrato in vigore nel 1931: non vi furono, tuttavia, sostanziali modifiche.

Più incisivo fu, al contrario, l’intervento del R.D.L. 26 settembre 1935, n. 1952, che rafforzò il ruolo di controllo del questore sulle guardie private. Con il R.D.L. 12 novembre 1936, n. 2144 tale sistema di controlli fu ulteriormente esteso, attribuendosi al questore un diretto potere di intervento anche verso gli istituti di vigilanza e non solo verso le guardie private. Il successivo regolamento di esecuzione al t.u.l.p.s., approvato con R.D. 6 maggio 1940, n. 635, non apportò sostanziali modifiche alla disciplina previgente.

3. Disciplina

L’attività di vigilanza privata è disciplinata dal titolo IV del t.u.l.p.s., che prevede possa essere svolta secondo due diverse modalità. In primo luogo, ai sensi dell’art. 133 t.u.l.p.s.3, sono gli stessi proprietari a poter direttamente impiegare propri dipendenti riconoscendo loro il ruolo di guardie giurate deputate allo svolgimento di attività di vigilanza e custodia dei beni; in secondo luogo, ai sensi dell’art. 134 t.u.l.p.s.4, l’attività di vigilanza può essere svolta, previa autorizzazione prefettizia, da persone giuridiche private o singole persone fisiche che impieghino propri dipendenti, in via professionale ed in forma imprenditoriale, riconosciuti come guardie giurate, al servizio a richiesta di proprietari di beni.

Il servizio prestato e i requisiti richiesti per le guardie giurate sono gli stessi, ciò che differisce è solo il committente che, nel secondo caso, è un istituto di vigilanza e non il diretto interessato, proprietario dei beni da tutelare. Riguardo tali requisiti, la Corte Costituzionale con sentenza del 25 luglio 1996, n. 3115, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, in relazione agli artt. 2 e 3 e da 17 a 22 Cost., dell’art. 1386, 1° comma, n. 5, del t.u.l.p.s., nella parte in cui, stabilendo i requisiti che devono possedere le guardie particolari giurate: a) consente di valutare la condotta “politica” dell’aspirante; b) richiede una condotta morale “ottima” anziché “buona”; c) consente di valutare la condotta “morale” per aspetti non incidenti sull’attuale attitudine ed affidabilità dell’aspirante ad esercitare le relative funzioni.

L’esercizio dell’attività disciplinata dall’art. 134 t.u.l.p.s. è subordinata, come già detto, al rilascio di una specifica autorizzazione da parte del prefetto, che, come tutte le autorizzazioni di polizia, è rilasciata intuitu personae: essa è strettamente personale e, pertanto, intrasmissibile, né cedibile neanche in rappresentanza. Ne discende che, ove anche il titolare della licenza nomini di propria iniziativa un dipendente quale procuratore o direttore, tale investitura esplica i propri effetti solo tra le parti. Il rilascio dell’autorizzazione dipende dal possesso dei requisiti soggettivi di cui all’art. 11 t.u.l.p.s.7, nonché dal possesso di quei requisiti prescritti dalla normativa antimafia. È, inoltre, tassativamente richiesta la cittadinanza italiana, la capacità di obbligarsi e il non aver mai riportato condanne per delitti non colposi, unitamente alla disponibilità di una struttura tecnica ed organizzativa che consenta effettivamente di erogare i servizi che si intendono esercitare, riconoscendosi all’autorità prefettizia, nel merito della valutazione di tale ultimo requisito, un’ampia capacità di valutazione discrezionale8. Nel merito delle valutazioni discrezionali tese al rilascio della licenza incidono le esigenze di controllo del territorio esistenti nelle diverse province, in rapporto al numero degli istituti già operanti e alle loro funzionalità9, nonché l’incidenza del rilascio di una nuova autorizzazione sul rapporto quantitativo tra il numero delle guardie giurate e quello delle forze di polizia10. Pertanto, può esservi ragione di giustificato diniego qualora si ritenga che l’ingresso di ulteriori operatori comporti problemi di ordine pubblico11.

Il potere di controllo prefettizio inerisce non solo la fase genetica del rilascio (o del diniego) della licenza, ma anche la fase funzionale, in relazione alle modalità in cui l’attività sarà svolta. L’art. 257 reg. p.s.12. prevede, infatti, che, qualsiasi variazione abbia ad oggetto il funzionamento dell’istituto di vigilanza, necessiti di una ulteriore autorizzazione da parte del prefetto; il successivo art. 25913, a sua volta, fa obbligo al titolare dell’istituto di comunicare al prefetto gli elenchi del personale dipendente, di dare notizia di ogni variazione intervenuta nel corso del rapporto, di restituire i decreti di nomina delle guardie giurate quando abbiano cessato di prestare servizio, nonché di fornire gli opportuni riferimenti e generalità dei loro clienti/committenti, al fine di favorire un proficuo coordinamento con l’azione delle forze di polizia.

Da ultimo, può riconoscersi un’ulteriore facoltà di controllo pubblico, in base a quanto disposto dall’art. 139 t.u.l.p.s.14, esercitabile sugli istituti di vigilanza o anche direttamente sulle guardie giurate, sulle quali incombe un obbligo di collaborazione con gli organi di polizia. La normativa in questione prevede, infatti, che, da un lato, gli istituti di vigilanza siano tenuti a prestare la loro opera a richiesta delle autorità di pubblica sicurezza e, dall’altro, che anche le stesse guardie giurate siano tenute ad assolvere i compiti loro direttamente impartiti su iniziativa di ufficiali o agenti appartenenti alle forze dell’ordine. Si tratta, com’è evidente, di una forma di controllo diretto al quanto invasiva che risponde, non solo a quelle esigenze di collaborazione e coordinamento, tra “forze dell’ordine pubblico” e “forze dell’ordine privato”, ma di una disposizione che per le sue peculiari caratteristiche ben può inquadrarsi come estensione di quel principio di collaborazione civica, che, all’art. 652 c.p.15, sanziona penalmente quanti, in occasioni di necessità o pericolo, si rifiutino senza giusto motivo, di prestare la propria opera di soccorso.

L’esercizio abusivo dell’attività di vigilanza, in difetto della licenza prefettizia, è reato sancito dall’art. 140 t.u.l.p.s.16. La norma, per il combinato disposto con l’art. 134, è rivolta a qualsiasi forma di attività di vigilanza.

Circa l’ambito territoriale entro cui l’istituto di vigilanza può esercitare le proprie funzioni, l’art. 257 del reg. p.s.17 prescrive espressamente che nella licenza sia fatta menzione dei comuni e delle località in cui l’attività può essere svolta.

4. Poteri di intervento diretto

Tutto quanto fino ad ora esaminato attiene alla semplice disciplina, in sé e per sé considerata. Essa, tuttavia, debitamente contestualizzata nei variegati ambiti lavorativi cui afferisce, rivela profili di inadeguatezza lì dove non offre sufficienti elementi per discernere con chiarezza i casi in cui l’attività di vigilanza sia collaterale o secondaria rispetto ad altra attività principale e, pertanto, esercitata con una minore intensità: ciò potrebbe suggerire, de jure condendo, l’assoggettabilità ad una disciplina più elastica rispetto a quella che lo stesso art. 134 t.u.l.p.s. riserva a quegli enti che svolgano l’attività di vigilanza secondo i canoni della professionalità ed imprenditorialità. In tal senso si è espressa la Cassazione, con Sentenza 19 Novembre 1993 – depositata il 25 Gennaio 1994 – affermando il principio secondo cui la licenza prefettizia sia necessaria solo nei casi in cui l’attività di vigilanza sia accompagnata dalla facoltà di esercitare poteri di intervento diretto, volti a prevenire e reprimere condotte illecite protratte ai danni delle proprietà immobiliari o mobiliari soggette a custodia.

Tale massima, nella fattispecie concreta da cui ha tratto spunto, ha portato ad escludere la necessarietà della licenza nelle ipotesi in cui il servizio fosse svolto, senza armi, da soci di una cooperativa cui fosse affidato il compito di segnalare alle autorità competenti l’eventualità che i beni sottoposti alla loro custodia fossero esposti a rischi o danni.

Di tutt’altro avviso è stato il Tribunale Amministrativo Regionale della Regione Puglia18 , secondo il quale l’art. 134 del t.u.l.p.s. non limita “il controllo prefettizio alle attività di vigilanza e custodia svolte con armi, ma si riferisce, con espressione ampia e generica, ad ogni opera di vigilanza e custodia”. Pertanto, secondo quanto affermato dai giudici amministrativi, l’elemento di discrimine tra le attività di vigilanza soggette a licenza e quelle, viceversa, non soggette a licenza, non consiste nell’uso delle armi, ma piuttosto nella possibilità che da esse si verifichi una interferenza ed una sovrapposizione con le prerogative di prevenzione ed intervento istituzionalmente demandate alle forze dell’ordine.

Ulteriormente, il Tribunale osserva che “appare quanto mai pericolosa l’affermazione di un principio di parziale liberalizzazione del settore della vigilanza privata non armata potendo proprio in tale ambito verificarsi abusi e prepotenze che possono essere prevenuti da un attento controllo amministrativo”. Pertanto, le imprese di vigilanza sono tenute comunque (anche se disarmate) a sottostare ai controlli amministrativi, in ragione della continuità delle relazioni che esse possono intrattenere con le forze dell’ordine e della loro significativa presenza sul territorio.

Tali considerazioni hanno raccolto il consenso del Consiglio di Stato, sia in sede consultiva19 sia in sede giurisprudenziale20. Vi si è, infatti, affermato che l’art. 134 t.u.l.p.s., infatti, non condiziona la necessarietà dell’autorizzazione prefettizia al conferimento alle guardie giurate di specifici poteri di intervento diretto o al conferimento del porto d’armi o al conferimento della qualifica di agente di polizia giudiziaria. Tali aspetti sono assolutamente estranei al rilascio dell’autorizzazione di cui all’art. 134, che, infatti, non riconosce l’esercizio di funzioni pubbliche, non riconosce ai verbali redatti da guardie giurate l’efficacia di atti pubblici ed è indipendente dal rilascio del porto d’armi, per il quale eventualmente occorre un diverso provvedimento.

I principi innanzi esposti rispondono coerentemente a quanto già precedentemente affermato dal Consiglio di Stato21, secondo cui rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 134 t.u.l.p.s. anche le attività di gestione di impianti di tele-allarme a mezzo dei quali gli istituti di vigilanza possano tenere sotto controllo a distanza i beni sottoposti alla loro vigilanza, trasmettendo, in caso di allarme, l’informazione agli organi di polizia.

La Corte di Cassazione è tornata anche recentemente sull’argomento, accogliendo i rilievi amministrativistici appena esposti, negando, quindi, il precedente orientamento espresso nella sentenza del 1993.

Le ragioni addotte per giustificare tale divergenza attengono ad un più attento esame del testo letterale dell’art. 134 (che univocamente afferma che qualsiasi forma di attività imprenditoriale di vigilanza o custodia di beni necessita della licenza del prefetto).

Ma non solo. La sentenza del 1993 proponeva, infatti, un’analisi logico-sistematica della normativa vigente, e, traendo spunto dai caratteri peculiari di taluni settori di attività diversi dalla vigilanza tradizionale, poneva in stretta correlazione l’attività di vigilanza e custodia con la facoltà di poter prestare diretto intervento per la prevenzione e repressione dei reati. Tale correlazione (tra vigilanza e potere di intervento diretto) appare come un abuso interpretativo che, in assenza di un’auspicabile svecchiamento della normativa in materia, rischierebbe di creare scompensi e vuoti di tutela.

Viceversa, si è ritenuto22 che l’esercizio dell’attività di sorveglianza in difetto di licenza prefettizia non fosse penalmente sanzionabile nei casi in cui tale attività non abbia avuto un’apprezzabile durata e non fosse svolta in forma imprenditoriale. Ci si riferisce alle ipotesi di conferimenti di incarichi di vigilanza per periodo brevissimi di sorveglianza momentanea, tali da non poter compromettere o pregiudicare le esigenze di pubblica sicurezza che la normativa vigente ha interesse a tutelare.

5. Il requisito della cittadinanza italiana

Nel novero dei requisiti indispensabili per l’esercizio dell’attività di vigilanza e guardia giurata, vi è quello della cittadinanza italiana.

Tale requisito riguarda sia gli istituti di vigilanza che i lavoratori che vogliano prestare opera di guardia giurata.

L’art. 134 del t.u.l.p.s. prescrive, infatti, che la licenza non può essere concessa a persone che non abbiano la cittadinanza italiana.

Parimenti, per quanto attiene alle «guardie particolari», il successivo art. 138 prescrive, anch’esso, tra i requisiti la cittadinanza italiana.

L’art. 250 del regolamento di attuazione al testo unico23, prevede, inoltre, che le guardie particolari giurino davanti al pretore fedeltà alla Repubblica italiana e al suo capo, di osservare lealmente le leggi dello Stato e di adempiere alle funzioni a esse affidate con coscienza e diligenza e con l’unico intento di perseguire il pubblico interesse.

È indubbio, quindi, che, per entrambe le fattispecie – istituti e guardie giurate – il requisito della nazionalità è posto con chiarezza dalla normativa nazionale.

Tale normativa indubbiamente confligge con il principio di libera circolazione dei fattori produttivi su cui si fondano l’integrazione economica e l’idea stessa di mercato unico europeo, poiché ne viola due importanti garanzie: e cioè che non vi siano discriminazioni fondate sulla nazionalità e che venga riconosciuta una parità di trattamento tra stranieri e cittadini nazionali.

Quello di cui si tratta – è d’uopo sottolinearlo – è un tema assolutamente delicato, di grande attualità e dalle implicazioni più generali. Si pensi all’articolo 38 del D.Lgs. 165/2001, il quale prevede che i cittadini degli Stati membri dell’Unione Europea possano accedere a posti di lavoro presso le pubbliche amministrazioni a condizione che gli stessi non implichino, appunto, l’ esercizio di pubblici poteri, in modo diretto o indiretto ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale. Allo stesso modo, l’art, 2 del D.P.R. 487/1994, che disciplina l’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni, prevede, tra i requisiti generali richiesti, la cittadinanza italiana, avvertendo che detto requisito non è richiesto per i soggetti appartenenti all’Unione Europea, fatte salve le eccezioni di cui al D.P.C.M. 7 febbraio 1994 (relativamente alle cariche con funzioni di vertice).

Pertanto, in data 29 luglio 1999, la Commissione Europea aveva presentato un ricorso alla Corte di giustizia perché venisse dichiarato che il nostro Paese, nel disciplinare le attività di sicurezza privata, prescrivendo la necessità del possesso in capo agli interessati della cittadinanza italiana, era venuto meno agli obblighi derivanti dalle disposizioni del Trattato in tema di libertà di circolazione dei lavoratori, libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi.

Il ricorso alla Corte ha fatto seguito al precedente avvio di una procedura di infrazione da parte della medesima Commissione la quale aveva ritenuto insoddisfacente la risposta del Governo italiano a seguito dell’invito ad adottare le misure necessarie a conformarsi al parere motivato dalla stessa espresso.

Il Governo italiano – anche quando convenuto in sede di giudizio – ha in effetti ulteriormente confermato che le segnalate clausole relative alla nazionalità possano comportare restrizioni alla libera circolazione dei lavoratori, alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione di servizi. Tuttavia ha ritenuto giustificata la sussistenza del requisito della nazionalità, in ragione della specifica natura delle attività di cui si tratta, poiché strettamente attinenti all’esercizio di pubblici poteri.

Al ricorso ha fatto seguito la condanna giunta al Governo italiano con la sentenza 283-9924.

Per ciò che concerne la disciplina comunitaria, gli articoli del Trattato che si assumono violati dalla normativa nazionale sono quelli concernenti la libera circolazione delle persone, di cui all’art. 48 del Trattato, la libertà di stabilimento, di cui all’art. 52 e la libera prestazione dei servizi, di cui all’art. 59.

In particolare, per quanto riguarda la prima norma citata, il Trattato prescrive che in ambito comunitario sia garantita la libera circolazione dei lavoratori all’interno degli Stati Membri, abolendo qualsiasi forma di discriminazione fondata sulla nazionalità, che incida sulle condizioni di lavoro, d’impiego o sulla retribuzione – fatte salve le limitazioni giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica.

Il punto cruciale della questione, sul quale in gran parte la Corte di Giustizia ha dovuto fondare la propria decisione ha riguardato la possibilità o meno di ricondurre l’attività espletata dagli istituti di vigilanza e dalle guardie giurate alla nozione di esercizio di pubblici poteri. Lo stesso Trattato prevede, infatti, in tema di libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi, delle deroghe per le attività che partecipano all’esercizio di pubblici poteri.

Del resto, proprio su questo profilo, ha insistito la difesa del Governo italiano.

Invero, sul punto specifico la Corte già in passato si è pronunciata (con riferimento alla legislazione del Belgio e della Spagna), nel senso di non ritenere, l’attività espletata da imprese di sorveglianza o di vigilanza, costituire, di regola, una partecipazione diretta e specifica all’esercizio di pubblici poteri. Peraltro, in quei precedenti, la Corte aveva non solo rilevato preliminarmente l’estraneità degli istituti di vigilanza privata all’apparato della pubblica amministrazione, ma anche sottolineato che l’attività di cui trattasi si svolgesse in base a rapporti giuridici di diritto privato. La stessa circostanza segnalata dal Governo italiano, secondo cui le guardie particolari giurate alle dipendenze di imprese di vigilanza possono procedere ad arresti in flagranza di reato, non è stata valutata come decisiva per ritenere fondata la tesi dell’esplicazione di pubblici poteri. In effetti, la Corte ha fatto proprie, sul punto, le conclusioni dell’avvocato generale, nel senso del disconoscimento di uno speciale potere delle sole guardie particolari giurate: Nelle citate conclusioni, infatti, era osservato come il generale potere dell’arresto in flagranza di delitto nel caso di delitti gravi sia attribuito dalla legge italiana a ogni persona. E comunque il potere di arresto riconosciuto alle guardie particolari giurate, anche per i reati di minore gravità, è riconducibile nella nozione di funzioni ausiliarie.

Per quanto specificamente riguarda le guardie particolari giurate, l’esame della compatibilità della normativa comunitaria con la disciplina nazionale attiene, evidentemente, al solo profilo dell’eventuale ostacolo alla libera circolazione dei lavoratori. Invero, la posizione del Governo italiano si è fondata nel valorizzare il dato per cui le dette guardie non sono lavoratori autonomi, ma necessariamente lavoratori subordinati.

Tuttavia, anche tale argomento è stato nettamente superato dalla Corte. L’art. 48 del Trattato, che riguarda la libera circolazione dei lavoratori, non si applica agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni. Orbene, a parte il rilievo per cui la stessa Corte di giustizia interpreta la segnalata esclusione come non riferita a tutta la pubblica amministrazione, decisiva è nel caso di specie l’estraneità del comparto in esame alla pubblica amministrazione. Le guardie particolari giurate, pur considerate come lavoratori dipendenti e non autonomi – come sostenuto dal Governo italiano – tuttavia non appartengono alla pubblica amministrazione, in quanto alle dipendenze di persone fisiche o giuridiche di diritto privato. Di qui l’applicabilità piena al caso di specie dell’art. 48 del Trattato.

A dipanare ogni dubbio in proposito è intervenuto l”art. 3325 della Legge 1 Marzo 2002, n. 39 (“Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – Legge comunitaria 2001“), che espressamente ha esteso, anche ai cittadini dell’Unione Europea, la disciplina dettata dagli art. 134 e 138 t.u.l.p.s., i quale prevedevano precedentemente che la licenza prefettizia potesse essere prestata a favore dei soli cittadini italiani.

6. Regime di responsabilità

L’esercizio dell’attività di vigilanza coinvolge, a diverso titolo, tre diversi soggetti, ciascuno portatore di propri interessi particolari. Nelle fasi patologiche del rapporto, tali interessi riflettono altrettante responsabilità, che gravano sulle guardie giurate verso l’istituto di vigilanza e su questo verso il cliente/committente.

La materia è stata oggetto di interventi chiarificatori da parte della giurisprudenza di merito e di legittimità.

Con sentenza del 4 giugno 1990 emessa dal Tribunale di Milano26, si è esaminata l’ipotesi della responsabilità dell’istituto di vigilanza per furto nelle cassette di sicurezza ai danni di un cliente, avvenuto con la complicità delle guardie giurate impiegate presso un istituto bancario. In tale fattispecie si è affermata la responsabilità dell’istituto di vigilanza, in via extracontrattuale verso il titolare della cassetta di sicurezza, ed in via contrattuale verso la banca, conseguentemente dichiarando nulla, ex art. 1229 c.c., la clausola di limitazione della responsabilità contratta a favore dell’istituto di vigilanza per fatti imputabili ai propri dipendenti.

Similmente, con sentenza del 199027, in tema di risarcimento dei danni cagionati dal reato, nel caso di furto di oggetti contenuti in cassette di sicurezza, custodite nel caveau di una banca, perpetrato con la complicità delle guardie giurate dipendenti di un istituto di vigilanza, si è affermata che, la responsabilità “ex contractu” della banca verso i clienti danneggiati dall’evento criminoso, non elide la responsabilità “ex delictu” dei colpevoli e dell’istituto di vigilanza (responsabile civile), che risponde direttamente ex art. 2049 c.c. e art. 185, comma II, c.p. verso i cassettisti e verso la banca per l’attività criminosa dei suoi dipendenti.

Ulteriormente, ai fini della responsabilità ex art. 2049 c.c. – in base alla quale, in tema di risarcimento del danno cagionato dal reato, il fatto illecito del commesso risale al committente – si è ritenuto28 che non sia necessario che tra le mansioni affidate e l’evento sussista un nesso di casualità, “essendo invece sufficiente che ricorra un semplice rapporto di occasionalità necessaria, nel senso che la incombenza affidata al commesso abbia determinato una situazione tale da rendere possibile o da agevolare la consumazione del fatto illecito e, quindi, la produzione dell’evento dannoso, anche se il commesso abbia operato oltre i limiti dell’incarico e contro la volontà del committente o abbia agito con dolo purché nell’ambito delle sue mansioni”.

Circa le linee di condotta che il datore deve adottare in base a quanto disposto dall’art. 2087 c.c.29, la Cassazione ha ritenuto che rientri tra queste anche l’obbligo di osservare le disposizione del questore, le quali, attendendo all’efficienza e al buon andamento del servizio cui la guardia giurata è adibita, siano idonee ad evitare o limitare anche il danno del lavoratore, che può derivare da un servizio non pienamente efficiente. Anche il dolo o la colpa di terzi (compreso lo stesso lavoratore) non sono idonei ad escludere la concorrente responsabilità del datore30.

In ordine, infine, alle responsabilità (e conseguenti sanzioni) gravanti sugli istituti di vigilanza si ricorda la sentenza del Tribunale di Milano, con cui, per gravi, consistenti ed attuali esigenze cautelari, per l’ipotesi di reati di corruzione e truffa aggravata nei confronti della p.a., si è applicata agli enti la misura dell’interdizione dall’esercizio dell’attività per la durata di un anno ai sensi dell’art. 9, 2° comma, lett. a), D.Lgs. 231/2001 31.

Per quanto, invece, più strettamente attiene alla sfera di responsabilità delle guardie giurate, la Cassazione ha ritenuto32 non operino in loro favore le cause di giustificazione contemplate dagli artt. 51 e 53 c.p.. Il fatto da cui la sentenza traeva spunto riguardava una fattispecie di omicidio imputabile alla guardia giurata, la quale, avendo invano intimato l’alt ad un auto in transito, aveva sparato sulle persone che vi erano a bordo, senza che esse avessero posto in essere alcun anomalo comportamento tale da pregiudicare i beni oggetto della vigilanza. Pertanto, nel caso de quo, la Cassazione ha ritenuto non invocabile l’errore sulle norme extrapenali con riferimento ai limiti delle competenze istituzionali e all’uso delle armi, trattandosi di norme integrative dei precetti penali che non possono essere ignorate. Tanto meno è parsa ipotizzabile la ricorrenza delle condizioni di scusabilità dell’ignoranza della legge individuate dalla sentenza n. 364/1988 della Corte Costituzionale, poiché la normativa al riguardo non è stata oggetto di rilevanti incertezza giurisprudenziali. Tale sentenza ribadisce, pertanto, la ristrettezza dei limiti entro cui le guardie giurate sono chiamate ad operare, sanzionando gravemente i casi in cui esse, travalicando tali limiti, ingeriscano in attività di controllo e prevenzione del crimine, che esorbitano dal prestare vigilanza sui beni sottoposti alla loro tutela.

7. Qualifica di pubblici ufficiali

Quello relativo all’esatta natura, pubblicistica o privatistica, da attribuire all’attività espletata dalle guardie giurate è certamente tema più controverso di quelli fino ad ora trattati. Al quadro normativo di non facile lettura si sono sovrapposti due diversi orientamenti giurisprudenziali e dottrinali tra loro in aperto contrasto.

Allo stato attuale è, quindi, compito ardito affermare il prevalere dell’uno sull’altro, poiché sia la tesi pubblicistica che quella privatistica affondano le loro ragioni nelle medesime lacune normative, cercando per diverse vie di ricucire un sistema, di fatto menomato dall’inerzia del legislatore.

Attribuire natura pubblica all’attività espletata dalle guardie giurate significa attribuire, o negare, ad esse lo status giuridico di pubblico ufficiale e da ciò possono discendere le conseguenze che andiamo ad esporre.

La costante giurisprudenza degli anni sessanta/settanta mostra di aderire alla già menzionata tesi pubblicistica, rinvenendone il fondamento normativo nel combinato disposto degli artt. 133 e ss. t.u.l.p.s. e dell’art. 255 del relativo regolamento di esecuzione33, e affermando che le guardie giurate, nell’ambito delle loro specifiche mansioni, svolgono attività di polizia giudiziaria e, pertanto, sono da considerarsi pubblici ufficiali34 .

Entra nel merito del fondamento normativo in base al quale riconoscere alle guardie giurate la qualifica di pubblici ufficiali, anche una successiva sentenza35 , la quale tuttavia propone, rispetto a quella precedentemente menzionata, una diversa prospettiva. Essa afferma, infatti, che l’attribuzione alle guardie giurate della qualifica di pubblico ufficiale non discende dal rilascio all’istituto di vigilanza, presso cui dipendono, della licenza di cui all’art. 134 t.u.l.p.s., poiché detta qualifica dipende esclusivamente dal concreto esercizio delle funzioni di prevenzione e repressione cui le guardie giurate sono preposte. Tale assunto deriva dal principio secondo cui sono ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, nei limiti del servizio a cui sono destinate e secondo le attribuzioni ad esse conferite dalle leggi e dai regolamenti, tutte le persone incaricate di svolgere compiti di prevenzione e repressione di determinate specie di reati. Le guardie giurate sono, infatti, chiamate allo svolgimento di tali compiti avendo ricevuto specifica investitura amministrativa all’esercizio di poteri che attengono alla potestà dello Stato: pertanto, nei limiti delle loro competenze, al pari degli organi di polizia giudiziaria, anche le guardie giurate sono chiamate, come pubblici ufficiali, ad agire in nome e per conto dello Stato.

Appartiene allo stesso periodo la sentenza36 con cui si riconosceva legittimità al provvedimento con cui un sindaco, per far fronte a particolari e contingenti necessità, conferiva al comandante di un corpo di guardie giurate l’incarico di disporre un servizio di temporanea disciplina del traffico. Da ciò discendeva la conseguenza che la resistenza opposta da un privato alle guardie giurate all’uopo impiegate si configurasse come un’ipotesi di resistenza a pubblico ufficiale, sanzionata dall’art. 337 c.p..37

Alle guardie giurate investite della qualifica di pubblici ufficiali è, quindi, riconosciuto, nell’ambito di loro competenza, il potere-dovere di ricercare ed arrestare in flagranza i colpevoli dei reati alla cui repressione sono preposti, assicurando le prove e adottando le misure cautelative e di coercizione richieste dalle circostanze38 .

Dal riconoscimento della qualifica di pubblico ufficiale discende una conseguenza ulteriore, che si riflette sul valore da attribuire alle “relazioni di servizio” redatte dalle guardie giurate. Anche a tale problematica, la tesi pubblicistica risponde positivamente riconoscendo a tali verbali il valore di atti pubblici, purché essi siano stati redatti in occasione dell’espletamento di compiti istituzionalmente demandati alle guardie medesime. Viceversa, la relazione di servizio si intende non proveniente da pubblico ufficiale, nell’ipotesi in cui essa riferisca di reati diversi rispetto a quelli relativi alla tutela del patrimonio affidato alla loro sorveglianza. In merito a tali reati, quindi, la relazione di servizio ha il valore di una normale denuncia presentata da un privato cittadino39 .

In contrasto con le posizioni fino ad ora espresse, la giurisprudenza degli anni novanta ha riconosciuto alla guardia giurata la qualifica di incaricato di pubblico servizio e non di pubblico ufficiale, ritenendo così di rispondere al dettato dell’art. 358 c.p.40, il quale, al primo comma, indica come incaricati di pubblico servizio coloro i quali prestano a qualunque titolo un pubblico servizio e, al comma successivo, afferma che per pubblico servizio si debba intendere “un attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale”. Ne è conseguita una rilettura anche delle disposizioni del t.u.l.p.s. fino ad ora esaminate. In particolare, si è ritenuto che, in base al combinato disposto dagli art. 133 e 134 t.u.l.p.s. alle guardie giurate non possano essere concesse operazioni che importino un esercizio di pubbliche funzioni o violazioni della libertà individuale, poiché esse possono essere esclusivamente destinate alla vigilanza e alla custodia di entità patrimoniali. Tanto meno si è ritenuto che, la qualità di pubblico ufficiale potrebbe essere loro riconosciuta sulla base della abilitazione a redigere verbali fidefacenti, poiché ad essi è attribuita un’attività accertativa non in grado di esplicare effetti all’esterno dell’ufficio e, comunque, inidonea a connotare una pubblica funzione se disgiunta da un autonomo potere certificativo. In ordine alla possibilità che esse collaborino, a richiesta delle forze dell’ordine, nell’attività di repressione dei reati o di tutela dell’ordine pubblico, si è osservato che tali compiti assolvono ad una funzione secondaria, sussidiaria e priva di autonomia41.

La distinzione su cui fino ad ora ci si è soffermati, circa l’attribuibilità o meno della qualifica di pubblici ufficiali, non riguarda solo caratteri meramente speculativi, ma, al contrario, coinvolge aspetti destinati ad incidere concretamente nelle modalità di svolgimento dei servizi affidati alle guardie giurate, anche in relazione alle fattispecie penali ascrivibili alla loro condotta. Così si è ritenuto, ad esempio, che integrasse gli estremi del reato di peculato (art. 314 c.p.42) la condotta della guardia giurata addetta al trasporto valori, che, in quanto incaricata di pubblico servizio, si appropri indebitamente del denaro affidatole appartenente ad un ente creditizio pubblico43 . Una successiva pronuncia di legittimità ha ulteriormente specificato che, a seguito della modifica introdotta dall’art. 11 della Legge 26 aprile 1990, n. 86, ai fini della configurabilità di tale reato, non rileva la natura pubblica o privata dell’istituto bancario proprietario dei valori trasportati, essendo, viceversa, richiesti i requisiti della altruità del denaro o del bene altrimenti determinato, nonché la disponibilità giuridica o la mera detenzione materiale dei beni medesimi, per ragioni dell’ufficio o del servizio44 .

Allo stesso modo, la distinzione tra l’attribuzione o meno della qualifica di pubblico ufficiale si riflette sulla possibilità di configurare, in danno delle guardie giurate, il delitto di cui agli artt. 341 e 344 c.p., in tema di oltraggio a pubblico ufficiale ed a pubblico impiegato, prima della loro abrogazione ad opera dell’art. 18, comma I, della Legge 25 giugno 1999, n. 205 45.

8. Porto d’armi

Molte recenti pronunce della giurisprudenza di legittimità, in materia di guardie giurate e istituti di vigilanza, hanno come comune filo conduttore il tema del porto d’armi.

Si è, in primo luogo, sottolineato che la qualifica di guardia giurata è elemento assolutamente indipendente dalla licenza del porto d’armi: tra le due – qualifica e licenza – non sussiste alcuna correlazione o reciproco condizionamento. Così le guardie giurate, in quanto tali, potranno portare armi solo se munite della relativa licenza, sottostando ai medesimi diritti e doveri dei comuni cittadini.

Ne consegue che, qualora una guardia giurata porti un’arma senza averne fatta denuncia alla competente autorità, non potrà invocare a propria discolpa né il convincimento di essere legittimato al possesso di un arma senza obbligo di denuncia, poiché tale scusante si risolverebbe in una ipotesi di ignoranza della legge penale, esclusa dall’art. 5 c.p.; né tanto meno potrà invocare a propria discolpa la scriminante di cui all’art. 51 c.p., il quale esclude la punibilità di condotte penalmente rilevanti, quando esse consistano in esercizi di diritti o adempimenti di doveri. Tale scriminante, si è osservato46 , è infatti riferibile esclusivamente a quei rapporti di subordinazione che nascono dal diritto pubblico.

Parimenti, la cessazione o sospensione del rapporto di lavoro di guardia giurata non incide sulla licenza di porto d’armi, nè sulla sua validità47 .

La tematica relativa alla licenza al porto d’armi ha, soprattutto, investito aspetti lavoristici, poiché incide strettamente sulle specifiche attitudini lavorative della guardia giurata al servizio di istituti di vigilanza. Sull’argomento non si registra alcun contrasto giurisprudenziale, ma, anzi, una molteplicità di sentenze concordi nell’affermare e ribadire il principio secondo cui è da considerarsi legittimo e per giusta causa il licenziamento della guardia giurata alla quale l’Autorità di Pubblica Sicurezza abbia revocato la licenza di porto d’armi, per ritenuta carenza dei prescritti requisiti psicofisici. La sopravvenuta mancanza del porto d’armi – anche per sua scadenza – agisce come una causa sospensiva del sinallagma contrattuale che intercorre tra datore e lavoratore, poiché impedisce a quest’ultimo di poter ordinariamente attendere alle mansioni di vigilanza e prevenzione cui è ordinariamente addetto48.

Una recente sentenza49 ha, tuttavia, ampliato il campo di analisi, ponendo a carico del datore di lavoro l’onere di dimostrare di non poter adibire ad alcuna diversa mansione – nell’ambito della struttura organizzativa di cui dispone – il lavoratore cui sia stato revocato il porto d’armi.

9. Controllo del datore di lavoro

Un tema di costante attualità e di puntuale interesse giurisprudenziale è quello inerente alla disciplina del potere di controllo del datore di lavoro sull’attività dei dipendenti.

Tale tema, strettamente attinente alla materia lavoristica nonché alla delicata disciplina di tutela della privacy – introdotta dalla legge 31 dicembre 1996, n. 675 – si innesta nella nostra indagine per quel che riguarda l’impiego della guardie giurate per l’esercizio della vigilanza aziendale.

Le norme da cui occorre muovere per analizzare la legittimità o meno delle investigazioni private sono gli articoli 2 e 3 dello Statuto dei Lavoratori (L. 300/1970). Essi, in particolare distinguono tra vigilanza sull’attività lavorativa dei dipendenti e tutela del patrimonio aziendale.

L’art. 2 prevede infatti: “Il datore di lavoro può impiegare le guardie particolari giurate, di cui agli articoli 133 e seguenti del testo unico approvato con regio decreto 18 giugno 1931, n. 733, soltanto per scopi di tutela del patrimonio aziendale. Le guardie giurate non possono contestare ai lavoratori azioni o fatti diversi da quelli che attengono alla tutela del patrimonio aziendale. È fatto divieto al datore di lavoro di adibire alla vigilanza sull’attività lavorativa le guardie giurate di cui al primo comma, le quali non possono accedere nei locali dove si svolge tale attività, durante lo svolgimento della stessa, se non eccezionalmente per specifiche e motivate esigenze attinenti ai compiti di cui al primo comma (omissis)”.

Ai fini del divieto di vigilanza occulta, l’art. 3 prevede inoltre che: “I nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanza dell’attività lavorativa debbono essere comunicati ai lavoratori interessati”.

La giurisprudenza di legittimità50 ha individuato in tali norme la volontà del legislatore non di escludere il potere di controllo, ma semplicemente di sottoporlo a limiti. La ratio è quella di ridurre il controllo occulto, volto all’accertamento di eventuali violazioni di quei doveri connessi all’esatto svolgimento della prestazione lavorativa e alla diligenza del lavoratore, come prescritta dall’art. 2104 c.c..

Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, la limitazione alla vigilanza del patrimonio aziendale alle guardie giurate – prevista dall’art. 2 – non può intendersi anche come prescrizione di senso positivo, volta, cioè, ad affermare il principio secondo cui esclusivamente alle guardie giurate possa essere demandato il compito di attuare tale forma di controllo (sentenze contrarie a tale indirizzo rappresentano orientamenti minoritari e sono di più lontana memoria51).

Tale giurisprudenza maggioritaria ritiene, infatti, che il datore possa legittimamente affidare lo svolgimento di funzioni di vigilanza anche ad altri soggetti – ove non ricorrano le prescrizioni di cui all’art. 3 – ai quali ugualmente si deve ritenere interdetto ogni esercizio di controllo sull’attività lavorativa, ivi compresa la facoltà stessa di accedere nei locali di lavoro.

In relazione all’art. 2, la Corte di Cassazione52 ha ammesso – sin dagli anni ’80 – che anche gli investigatori privati possano ritenersi abilitati allo svolgimento di indagini volte a garantire la tutela del patrimonio aziendale.

A tale scopo, si affermava, infatti, che l’art. 2 non prescrive che la sorveglianza del patrimonio aziendale debba essere effettuata soltanto per mezzo delle guardie giurate, ed, inoltre, si osservava che l’art. 3 vieta la vigilanza occulta dell’attività lavorativa, ma non anche l’accertamento di comportamenti illeciti che esulano dalla stessa attività. Oggetto delle numerose pronunce intervenute in tali temi sono state le ipotesi di fatti illeciti penalmente rilavanti commessi da lavoratori dipendenti, suscettibili di incidere sul patrimonio aziendale.

È evidente che, quando il controllo è esercitato su comportamenti del lavoratore che esulano dall’attività lavorativa, ma che pur sempre siano posti in essere in occasione di essa, non è affatto agevole tracciare una linea di confine tra le diverse ipotesi di vigilanza sul lavoro – che richiede il rispetto delle prescrizioni di cui all’art. 3 – e la legittima attività di vigilanza a garanzia dell’integrità del patrimonio aziendale. A tale proposito la Cassazione giunge ad affermare il principio secondo cui è da ritenersi ammissibile controllo occulto se diretto a verificare il “corretto adempimento” delle obbligazioni a carico del lavoratore. Viceversa, esso è da considerarsi escluso per ogni verifica circa l’uso della normale diligenza richiesta nell’adempimento di queste obbligazioni53 .

Sia la giurisprudenza di legittimità54 che quella di merito55, hanno, ulteriormente, affermato il principio secondo cui l’art. 3, stabilendo l’obbligo per il datore di lavoro di comunicare ai lavoratori interessati i nominativi del personale addetto alla vigilanza dell’attività lavorativa, vieta ogni forma di controllo occulto inteso ad accertare trasgressioni, nello svolgimento della prestazione lavorativa, delle prescrizioni di cui al già citato art. 2104 del codice civile, ma non trova applicazione nelle ipotesi di eventuale realizzazione, da parte dei lavoratori, di comportamenti illeciti esulanti dalla normale attività lavorativa, pur se commessi nel corso di essa. In assenza di specifiche limitazioni e considerata la libertà di difesa privata, tali controlli, commissionabili ad investigatori privati, aventi ad oggetto il comportamento tenuto dai lavoratori fuori dai locali aziendali non contrasta con l’art. 2 dello statuto dei lavoratori ed è legittimo tanto più quando non è finalizzato a verificare la diligenza dell’adempimento della prestazione, ma comportamenti che possono integrare gli estremi di reato56.

Volendo, per completezza, approfondire l’analisi di tali problematiche ed ulteriormente evidenziare il labile confine esistente tra la tutela del patrimonio aziendale e la vigilanza sull’attività lavorativa dei dipendenti si segnala la sentenza della Cassazione n. 9836 del 18 settembre 1998. Tale sentenza ha affermato il principio secondo cui non trova applicazione il divieto di controllo occulto nelle ipotesi in cui i lavoratori realizzino comportamenti illeciti esulant

GUARDIE GIURATE E ISTITUTI DI VIGILANZAultima modifica: 2008-08-13T23:32:00+02:00da ggiurata
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